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Belladonna of Sadness – Satana come liberazione individuale

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 17 mar 2023
  • Tempo di lettura: 3 min


L’opera di Eiichi Yamamoto si apre con il trionfante suono delle note dell’amore tra Jean e Jeanne. Ci sono fiori vivacissimi, vetrate colorate, uccellini in cielo e sorrisi intorno. In un Medioevo immaginato, la coppia perfetta convola a nozze: la felicità appare raggiungibile e meritata, nulla sembra presagire la morte e la sofferenza che presto avvolgeranno la vita dei due.


Belladonna of Sadness è un film d’animazione del 1973, prodotto naturale dello spirito della seconda ondata femminista e liberamente tratto dal saggio di Jules Michelet La strega (1862). Il film racconta, attraverso un turbine di immagini vibranti e musiche psichedeliche, la storia del brutale e doloroso risveglio sessuale di una donna e della conseguente presa di coscienza del potere del suo corpo e della sua anima. Jeanne subisce lo ius primae noctis e subito dopo il marito Jean, in un impeto di disperazione e vergogna, tenta di strangolarla: l’idillico amore è ormai corrotto e nulla potrà essere più come prima. La donna è mortificata, devastata, lentamente consumata dalla solitudine. È allora che farà la conoscenza di un ambiguo essere, un piccolo demone fallico portatore di consapevolezza, araldo di crescita; è Satana, è Jeanne stessa, è incarnazione del suo desiderio e della sua volontà.



È profondamente triste e ingiusto che la nascita erotica e l’agency di Jeanne debbano trovare origine nella violenza e linfa nella sete di vendetta, ma è questo a cui l’intenzionalità della donna viene relegata. Satana cresce, Jeanne lo alimenta con il suo corpo prima, il suo cuore dopo, la sua anima infine. La donna è completa solamente in associazione con quello che viene comunemente definito il male, perché altrimenti la sua affermazione personale e sociale sarebbe insostenibile: “Voglio diventare una donna terribile”.



Jeanne viene così trasfigurata: in lei coesistono una serie di figure archetipiche quali la sfinge, la sacerdotessa, la divinità bifronte, e da lei si propagano vorticosi flussi erotici e convulse forze estatiche che coinvolgono il popolo in una danza macabra senza requie. I capelli della donna sono specchio del suo costante e fluido mutamento interiore, la tinta varia continuamente e le morbide onde avvolgono e donano vita ai corpi, umani e ibridi, che la sua mistica energia sessuale evoca e corrompe. Non appena Jeanne riesce ad accettare questo nuovo e spaventoso lato di sé, il rapporto con Satana si fa intenso, soddisfacente, totalizzante, nonché benevolo. Attraverso un fiore, la belladonna, “Jeanne, la strega” inizia a guarire gli appestati e successivamente ad esaudire le richieste e le preghiere dei suoi compaesani, arrivando addirittura a mostrare la compassione dell’inferno ai vivi. Ella dice di non sentirsi più sola: la Natura, che insieme la condanna e la salva, è presente e lo era da sempre, doveva solo essere riconosciuta tra le profonde trame della sua stessa identità; per questo Jeanne indossa un mantello verde, il colore del Diavolo, tradizionalmente considerato presenza malevola insita in tutte le cose naturali.



Le immagini attraverso cui la narrazione prende forma sono di rara eleganza e intensità. Gli stili utilizzati sono diversi e si dispiegano liberamente in funzione di emozioni, atmosfere, situazioni. Il dolore fisico, soprattutto nell’indelebile sequenza dello stupro di Jeanne, emerge disperato tramite linee spezzate e colori pieni che feriscono l’occhio. Il gioco psichedelico si regge non soltanto sulla varietà tecnica, ma anche sul ritmo delle animazioni, talvolta rapido e ossessivo, talvolta immobile e cristallizzato. I riferimenti pittorici sono molteplici: la rappresentazione della pestilenza richiama la brutale disperazione di Guernica e i suoi effetti ricordano un Bruegel il Vecchio devitalizzato; la crudele corte feudale è spettrale e ipnotica, di espressionistica memoria; ma la citazione pittorica diretta giungerà alla fine del film, con una potenza ideologica inaspettata.


Jeanne viene nuovamente colpita e definitivamente annientata dalla vigliaccheria del marito e da un mondo di uomini che non smette di assoggettarla, condannandola al rogo. L’opera di Eiichi Yamamoto si chiude con la languida, drammatica e solitaria salita al patibolo di Jeanne. La donna ora è sola e dignitosa, la composizione minimale, il contesto silenzioso; l’amore autentico, il malvisto altruismo e la forza conquistata non l’hanno salvata, ma la consapevolezza creatrice che è stata in grado di instillare sarà un’ispirazione che non verrà dimenticata. La martire viene avvolta sensualmente dalle fiamme, allo stesso modo in cui Satana l’aveva posseduta: amore e morte si fondono laddove si consumano le carni di una novella Giovanna D’Arco; ma la sua anima e la sua forza no. Queste trasmigrano, diventando un bene comune e condiviso da tutte le donne presenti e da tutte quelle che verranno.



La Liberté guidant le peuple di Delacroix chiude il film, concretizzando il fermento interiore che agita e infiamma la coscienza spettatoriale e sottolineando l’universalità dell’opera stessa: la conoscenza profonda di sé e dell’altro passa attraverso lo svincolamento dalle paure che ingabbiano impulsi e desideri, la liberazione del proprio io richiede coraggio, ma è possibile.


A cura di: Bianca C.

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