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Le bonheur - la felicità tra istinto naturale e ordine cromatico

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 17 apr 2023
  • Tempo di lettura: 3 min


La felicità: le rose, i bambini, l’amore, i colori vivaci; la famiglia, il sole, l’estate, le gite domenicali; la romanticizzazione della quotidianità, la rimozione del dolore, il distacco dalla realtà. In Le Bonheur (1965), Agnès Varda strumentalizza la squisitezza estetica del suo primo film a colori, per esibire un contenuto ambiguo e proteiforme, in cristallino equilibrio tra ingenuità e corruzione.


François e Thérèse conducono una vita semplice ma ideale a Hay-les-Roses insieme ai loro figli Pierrot e Gisou. I due si amano. François però conosce Émilie, ama anche lei. L’amore, che pare moltiplicarsi, conduce alla tragedia: Thérèse trova (o cerca) la morte nelle acque di Mennecy, subito dopo aver appreso dell’esistenza dell’altra donna. Ad un lutto che viene riassunto con un’istantanea estiva, segue una nuova vita che risuona familiare: Thérèse viene sostituita da Émilie, i bambini hanno una nuova madre e François una nuova moglie. La felicità è ristabilita.



Varda parla di problemi di coppia (La pointe courte, 1955) e di soggettività femminile (Cléo de 5 à 7, 1962), utilizzando strategie narrative ed espressive che storicamente contribuirono a rivoluzionare il modo di fare e intendere il cinema, da quel momento “moderno”. In Le Bonheur ritorna su tematiche simili, abbandonando però intrecci densi di ansie e fitti di drammatici dialoghi (interiori e non) e allontanandosi dalle cupe contraddizioni del bianco e nero. Ma, mentre nei film precedenti, dolorosi e sofferti percorsi conducevano ad una catartica serenità, in Le Bonheur sembra dispiegarsi un tragitto inverso, o quantomeno un’ordinata struttura circolare. Inoltre, è perlopiù accantonata la reiterazione del verbale: la parola, così costitutivamente centrale nelle altre narrazioni, ora appare quasi superflua e inutilmente pesante.



Tutto è volto ad un sentire leggero, vaporoso, gradevole. A questa volontà atmosferica concorrono entrambi gli approcci che si possono distinguere nel film: una sensibilità bucolica e quotidiana verso il naturale, i fiori, il paesaggio, i caldi e intimi angoli domestici; e una vivacità pop-art segnaletica, data dall’uso referenziale dei cartelloni pubblicitari e delle loro tinte sgargianti, dal montaggio ritmicamente sincopato e dalle dissolvenze definite cromaticamente. Quest’ultima tendenza non fa che scandire e imporre un senso alla precedente: colori, parole scritte e strategie di montaggio serrate, conferiscono ordine, cadenza e controllo agli aspetti naturali, che appaiono addomesticati e internamente disinnescati. È infatti quello del vaso fiorito uno dei motivi ricorrenti del film, chiara metafora del tentativo di circoscrivere e contenere forze contemporaneamente piacevoli e potenzialmente dannose. L’insidia istintuale emerge invece nel breve ma significativo montaggio alternato che anticipa l’appuntamento tra François ed Émilie, quando i leoni dello Zoo di Vincennes appaiono come prefigurazione del loro incontro erotico; ma già i messaggi che li circondavano al Café du Château - “Bouche d’incendie”, “La tentation”, “Le mystère” – erano palese premonizione dei rischi di tale amore e della rottura dell’equilibrio a cui questo avrebbe condotto.



Varda stende una patina pittorica e metacinematografica per addolcire tematiche e coprire dinamiche viziate. La natura morta floreale, così come le sequenze paesaggistiche prendono a piene mani dalla tradizione impressionista, guardando soprattutto a Claude Monet per le ambientazioni di vita fluviale. Viene inoltre portato in scena Le Déjeuner sur l'herbe di Jean Renoir (1959), attraverso le immagini a colori di una tv via cavo; la scena citata richiama istantaneamente al bucolico momento familiare tra François, Thérèse e i bambini mostrato poco prima. I dialoghi del film fanno invece riferimento alla teoria dell’evoluzione darwiniana: in qualche modo sembra che Varda voglia crudelmente alludere alla fine di Thérèse, destinata ad avere la peggio rispetto alla più determinata Émilie. Ma presto sarà chiaro che sono entrambe vittime di un sistema familiare che erge l’ambizione ad una cristallizzata felicità ad unico obiettivo e i reali sentimenti, soprattutto femminili, a flebile pensiero inascoltato.



Quella del raggiungimento della perfetta felicità si presenta come una favola utile, ma che tradisce nel momento in cui l’ordine morale della famiglia e la fiducia negli affetti vengono meno; a quel punto la natura prende il sopravvento e Thérèse soccombe. Il tentativo di razionalizzare l’accaduto si manifesta con la triplice ripetizione dell’abbraccio che François tende al corpo morto della moglie. Egli è però determinato a voler rimarginare la ferita e riarginare il fiume: il montaggio si fa sempre più serrato, le inquadrature si ripropongono, i colori si riaccendono, le azioni, le parole, i gesti, i luoghi tornano ad essere gli stessi. Una greve inquietudine aleggia negli ultimi minuti di pellicola, ma i volti sorridenti dei nuovi protagonisti generano una stridente parvenza di confortante quotidianità. La felicità è ristabilita.



A cura di: Bianca

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