Forza maggiore e contraria
- cinebucolico
- 25 gen 2023
- Tempo di lettura: 4 min
a cura di: Valerio Mangini

Nero, titoli di testa. Un uomo invita delle persone a posare per un ritratto fotografico. Stacco sul paesaggio invernale delle Alpi francesi. Un fotografo e un bambino, seguito dalla sua famiglia, entrano in campo dal margine destro dell’inquadratura. La voice off del fotografo aggiusta le figure in cerca della posa armonica, della prossemica equilibrata, ma l’imbarazzo dei soggetti, palesemente poco avvezzi alla reciproca prossimità fisica – e all’esposizione allo sguardo altrui-, è palpabile: la cornice sta loro stretta, li (co)stringe entro un quadretto claustrofobico. Inciampano l’uno sull’altro, si pestano i piedi, l’evidente desiderio di trovarsi altrove si traduce in goffi sorrisi di circostanza; lo spettatore ride amaro. Ancora uno sfondo nero. Riappaiono le Alpi francesi, in campo lunghissimo, che con la loro austera imponenza sembrano voler schiacciare il sottostante villaggio turistico. Gli archi nervosi dell’Estate di Vivaldi rilanciano e fanno detonare le tensioni interne e intorno all’inquadratura, un’esplosione ripresa e ripetuta da quelle dei cannoni antivalanghe, segni di una punteggiatura sonora che insieme allo straniante commento musicale raccordano una serie di immagini ravvicinate dei declivi innevati, alternate ad altri campi lunghi, alcuni dei quali a strapiombo (gli addetti ai lavori direbbero: in plongée). L’inquietudine al di qua dello schermo è alle stelle, sta per succedere qualcosa. Stacco sul titolo, maiuscolo, lapidario: FORCE MAJEURE. Comincia la nera settimana bianca di un’incolore famiglia svedese.

Qualche sequenza dopo ci troviamo in un rifugio alpino; è ora di pranzo, la luce abbagliante si riflette sulle pareti imbiancate dei monti. Qualcosa, da lontano, si muove. Una valanga. Ebba (Lisa Loven Kongsli), la madre, già alle prime avvisaglie del pericolo si protende verso i figli, per far loro scudo con il proprio corpo; Tomas (Johannes Bah Kuhnke), il padre, che aveva banalizzato l’evento con tono rassicurante, fugge senza guardarsi indietro. Tutti incolumi: era una valanga controllata. Tuttavia la crisi personale e famigliare è ormai innescata: Tomas, nonostante le ossessive pressioni di Ebba, non riesce ad ammettere (anzitutto a se stesso) di aver abbandonato moglie e figli per mettersi in salvo; Ebba, pur di ottenere la tanto agognata confessione, fa leva sui moti d’orgoglio del marito col piede di porco dell’umiliazione pubblica; Harry e Vera, quasi subito esclusi dai discorsi e dalle considerazioni degli adulti, assistono privi di qualsivoglia forma di mediazione alla débâcle dei genitori. Segue un gioco al massacro (psicologico), tra versioni improbabili dei fatti e compromessi impossibili, uno stillicidio coniugale che si fa vivisezione del corpo culturale, una scarnificazione del senso di colpa che, specie in una società secolarizzata come quella occidentale contemporanea, dimostra di non aver più niente a che fare con qualche ideale di bontà in purezza, tantomeno con la pietas divina, bensì con il mostro totipotente (eppure imprescindibile) del conflitto fra istinto – di conservazione, della vita e della faccia – e aspettative sociali, l’uno profondamente radicato nella biologia (e nell’etologia), le altre negli stereotipi di genere (e generazionali). Forze maggiori e contrarie. L’incipit programmatico del film indirizza quindi la storia verso un clamoroso incidente drammatico, una catastrofe insistentemente annunciata: non tanto la (alla fine innocua) slavina, quanto la conseguente deflagrazione dei disagi e delle ipocrisie della civiltà (borghese), leitmotiv del cinema di Ruben Östlund.

Un cinema, quello del regista svedese, in cui a essere ingaggiati, scrutati, rovesciati e infine rispediti al mittente sono proprio i pregiudizi dello spettatore – in modo un poco pretestuoso e scontato in The Square e Triangle of Sadness (entrambi Palma d’oro, rispettivamente nel 2017 e nel 2022), con molta più efficacia in Play e, almeno in parte, Forza maggiore. Proprio in quest’ultimo film si possono osservare in vivo alcune ricorrenti dinamiche di posizionamento spettatoriale tipicamente ostlundiane: si cerca, e spesso si ottiene, la (facile) adesione a una certa visione del mondo, la più politicamente corretta possibile – ma anche la più banale –, e poi, una volta saldato l’orientamento ideologico prescelto ai meccanismi proiettivi dello spettatore, vengono mostrate a questi, con intensità e spietatezza crescenti, le contraddizioni in cui incappa il suo ragionamento. Si faccia attenzione, però, che mentre sul piano narrativo il giudizio relativo agli eventi appare pacifico, a livello formale non si suggerisce la giustezza di alcuna delle tesi in ballo, ossia non ci si sbilancia a favore di qualcuno in particolare: nel caso di Forza maggiore, per fare un esempio, le poche soggettive presenti non sono mai ancorate allo sguardo dei protagonisti, bensì a quello di personaggi
esterni (l’inserviente dell’hotel in cui alloggiano i Nostri) o laterali (Harry, significativamente per interposto drone) al ménage rappresentato, a segnalare l’assunzione di una prospettiva equidistante – equa, che non è sinonimo di oggettiva: Forza maggiore, in cui si alternano digitale, green screen e GoPro, è anche un critofilm che riflette sull’infondatezza della pretesa di oggettività delle immagini contemporanee, tutt’altro che fededegne, un po' come fanno il quasi coevo Segreti di famiglia del collega norvegese di Östlund, Joachim Trier, e il più recente France di Bruno Dumont.

Ultimo giorno di vacanza, capitolo finale della storia. Tomas salva Ebba, bloccata nella tormenta. È la prova dell’eroe, ampiamente superata, in questo caso anche straordinariamente ambigua. L’impasse matrimoniale si è infine risolta confermando la narrazione stereotipata del maschio (salvatore) e della femmina (in pericolo). Si torna a casa. Ognuno dismette i panni del turista (in visita dell’Altro in sé: quella del turist, titolo originale del film, può essere una condizione finanche interiore) e riprende il ruolo quotidiano. Ma le tensioni restano, eccome se restano. Neppure Ebba, così ligia all’etichetta del bravo genitore e della moglie fedele – sempre pronta al sacrificio –, può scendere a patti con le ragioni dell’atavica paura della morte; è l’ironia, tutta nordica, della chiosa.
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