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THE LIGHTHOUSE, dall’antichità all’A24

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 5 apr 2023
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 12 apr 2023

a cura di: Marco Speroni.

The Lighthouse (di R. Eggers, 2019) non è un horror, non è un thriller e non è un film drammatico. The Lighthouse è sui generis, ed è questo che lo rende un film unico, originale, singolare. Lo spettatore è portato a districarsi tra i meandri della sua disturbante complessità sia psicologicamente sia fisicamente. Il corpo si contorce in più momenti durante la visione, la mente fa lo stesso. Non comprende, si perde nelle allucinazioni delle due menti dei protagonisti. Siamo in tre su quell'isola, non due. Non a caso l’angoscia che permea tutto il film ha radici molto salde in una delle psiche più contorte, ma più geniali, della storia della letteratura, quella di Edgard Allan Poe. Il film è infatti tratto da un’opera incompiuta del famoso scrittore americano, intitolata proprio The Light-House, della quale conosciamo solamente poche pagine scritte sottoforma di diario e mai completate in quanto Poe morì in preda al delirium tremens. Questo rende ancora più intrigante e angosciante la trasposizione cinematografica di Eggers, che è stato particolarmente fedele al grande scrittore, nel raccontare il delirio, l’alienazione e i limiti umani. Nella sua versione storia, arte e mitologia confluiscono in una burrascosa ma lineare messinscena che contrappone costantemente elementi realistici e fantastici. Le citazioni dirette ad altri due maestri come Howard Phillips Lovecraft e Samuel Taylor Coleridge apportano un’ulteriore aurea di sacralità. Il gotico e il romanticismo si mischiano, contaminandosi a vicenda. Il mistero, la follia, la rassegnazione de Il Tempio (di Lovecraft, 1925) e la poesia, l'indomabilità della natura, il tormento de La ballata del vecchio marinaio (di Coleridge, 1798).

Ma soprattutto la morte in entrambi. Dal tempio proviene la luce arcana, l’ossessione. Il vecchio uccide l’albatros, la speranza. Due tra gli elementi cardine del film di Eggers, il quale li riutilizza con le medesime enigmatiche accezioni. Sull'isola il rapporto tra l’uomo e la natura e logorato, irrecuperabile. La luce del faro e i gabbiani sono appigli incerti, ma essenziali per mantenere la sanità mentale dei protagonisti. Sono la loro fede e, in quanto tale, li affascinano, ma li spaventano tremendamente. Si muovono sulle loro teste e li osservano, li giudicano. L’unica manifestazione divina che i due reietti possono permettersi nella miserabile condizione in cui sono. La mitologia pero è vicina, tangibile. Il personaggio di Thomas Wake (Willem Defoe) rimanda a Proteo, figlio di Poseidone, una delle prime figure di anziano legato al mare raccontate nei miti, fedelmente legato agli animali marini e custode primordiale di una vasta conoscenza che odiava condividere. Un vecchio bisbetico. Per rendere ancor più evidente il riferimento, in una scena Thomas Wake appare in un'allucinazione del personaggio Thomas Howard/Ephraim Winslow interpretato da Robert Pattinson, nelle sembianze di Proteo, con una sorta di corallo corniforme che gli fuoriesce dalla fronte come era solitamente rappresentata la divinità.

La capacita di Proteo di trasfigurarsi era infatti una delle caratteristiche dalle quali scaturisce il termine proteiforme, che indica un essere in grado di mutare forma in ogni momento, oggi utilizzato anche per riferirsi ad una persona che cambia spesso opinioni. Un uomo volubile, un Proteo. Non a caso come Thomas Wake. Parallelamente Howard/Winslow è costruito sulla figura di Prometeo in quanto le sue azioni evocano una diretta reinterpretazione ottocentesca e marinaresca del mito. Prometeo è un simbolo di ribellione e di sfida alle autorità e alle imposizioni. Dopo aver rubato il fuoco agli dei per consegnarlo agli esseri umani, fu condannato da Zeus ad essere legato ad una roccia, dove un’aquila ogni giorno planava per prelevare a colpi di becco i suoi organi. In The Lighthouse non è un’aquila, ma un gabbiano, l’animale marittimo per eccellenza, a divorare le viscere di Howard/Winslow, colpevole di aver sfidato un “dio” (Proteo/Wake) arrampicandosi sul monte Olimpo (il faro) per godere del fuoco, della luce proibita, il sapere universale. L’inquadratura della scena in cui il gabbiano mastica le viscere di Howard/Winslow è ispirata ad un dipinto del pittore simbolista belga Jean Delville.

Ma le analogie con opere pittoriche sono molteplici.

L’esperienza visiva di The Lighthouse, oltre alla simbologia derivata dalla mitologia, replica esplicitamente lo sguardo accecante di Ipnosi (1904) dell’artista tedesco Sascha Schneider, ricreata nella sequenza onirica in cui Wake irradia la luce dai suoi occhi su quelli di Howard/Winslow.

Inoltre, il personaggio di Wake è delineato sul volto barbuto de Il postino Joseph Roulin (1888) di Van Gogh, come anche la giacca dalla quale fuoriesce il colletto bianco della camicia. E ancora, la scenografia dell’esterno del faro e dell’abitazione è ricostruita sulla base dei fari (La collina del faro, 1927 e Il faro di Two Lights, 1929) nei malinconici dipinti dell’importante esponente del realismo americano Edward Hopper.

Ma oltre alla ricerca iconografica, si aggiunge la ricerca e la potenza delle parole, o meglio della parlata. Nella fase di scrittura della sceneggiatura Robert e suo fratello Max Eggers hanno studiato approfonditamente gli argomenti delle conversazioni inseriti nelle opere di Herman Melville e Robert Luis Stevenson, conosciuti principalmente per i loro romanzi ambientati su pittoresche navi e con protagonisti caratteristici marinai.

Ma la ricerca filologica sul gergo scava ancora più in profondità, fino ad arrivare alle radici dialettali trascritte nei libri di Sarah Orne Jewett, la quale raccolse le parlate originali dei contadini e marinai di fine Ottocento, senza alterare o correggere gli accenti. La scrittrice statunitense svolse la sua ricerca principalmente nel Maine, lo stato più a nord-est degli Stati Uniti, noto per le coste rocciose, la storia marittima e per gli ambienti naturali come le isole granitiche e selvagge, oltre che per i suoi fari dalle decorazioni caratteristiche. Le fonti di riferimento sono quindi le sue opere The Mate of the Daylight and Friends Ashore (1884), Tales of New England (1890), Strangers and Wayfarers (1890) ambientate sulla costa orientate degli Stati Uniti. Più specificatamente la parlata utilizzata da Pattinson è modellata su uno specifico dialetto adottato nelle aree rurali e contadine del Maine nel XIX secolo, mentre quella di Dafoe è ricostruita direttamente dal vernacolo dei pescatori e marinai dell’Atlantico di fine Ottocento. In questo modo, i loro dialoghi risultano, nella loro deformità, spontaneamente naturali e folkloristici. Oltre alla realta linguistica, pero, un’altra realtà subentra e si districa nella selva di elementi fantastici di cui e colmo il film: la storia. Un vero e proprio fatto di cronaca sta all'origine del soggetto di The Lighthouse. Nel 1801, infatti, un tetro e ambiguo evento conosciuto come The Smalls Lighthouse Tragedy vide come protagonisti proprio due guardiani del faro entrambi di nome Thomas, come i personaggi del film di Eggers. Thomas Howell e Thomas Griffith vivevano al largo della penisola di Marloes, in Galles, in quanto era stata loro assegnata la guardia del faro. Era noto che i due avessero un rapporto burrascoso e quando Griffith morì in un incidente dalle circostanze poco chiare, Howell temette di essere sospettato di omicidio se si fosse liberato del corpo in mare o in qualsiasi altro modo. Decise così di costruire una cassa di legno nella quale poter conservare il corpo in via di decomposizione. La “bara” pero fu composta in modo troppo azzardato e quando, qualche giorno dopo, forti raffiche di vento fecero saltare le assi, fuoriuscì il braccio del cadavere di Griffith, che si protese verso la finestra di Howell, come se volesse additarlo per l’accaduto. Howell trascorse mesi di solitudine durante i quali precipito in uno stato di paranoia. Quando il periodo di guardia terminò e i colleghi lo raggiunsero, era ormai degenerato in uno stato di follia insanabile. Fu proprio da questo episodio che nel Regno Unito venne introdotta la regola per la quale vadano assegnati alla guardia dei fari gruppi di tre uomini invece di due.

E' ormai chiara la potenza evocatrice di The Lighthouse, che coniuga armonicamente al suo interno riferimenti provenienti dai rami culturali più disparati. Questo terreno così fertile è però creato per fare in modo che da esso emergano le magistrali interpretazioni attoriali di Defoe e Pattinson. Il loro rapporto animato, distruttivo ma allo stesso tempo contrassegnato da una passionalità primordiale riflette il contesto remoto e metafisico in cui sono calati. Le intemperie che sferzano al di fuori del faro soffiano violente e parallele ai contrasti che hanno luogo all’interno, in un turbine di alienazione. Gli interni e gli esterni si confondono. Il mare osserva. A volte rumoreggia, alza la voce, altre volte si placa, si zittisce. I due personaggi non se ne curano, sono sempre più pietosi, precipitano nei meandri più beceri dell’inconscio umano. Non concepiscono la loro situazione, perché soffocati da pensieri essenziali, bassi. Sono in quella situazione solo per soldi, per sopravvivere. La ragione li abbandona sempre di piu, e loro retrocedono ad uno stadio primordiale, animale, irrazionale, lo stato di natura, dominato dalle passioni. Il tempo sull'isola sembra essersi fermato e il mondo sembra essersi dimenticato di loro. Le risate isteriche deformano i loro lineamenti scavati. La barba e i baffi si impregnano di alcool. Gli occhi sbarrati, stralunati, inumani si muovono in modo maniacale. Il bianco e nero crea una patina di rarefazione, così densa che sfuma le scenografie, le nasconde dietro ad una foschia nebulosa. Da questa nebbia che aleggia

costantemente emergono i volti, sempre più decadenti. Perforano lo schermo, entrano nel mondo reale e diventano un mito a loro volta.

Catartico e trascendentale.

Un mito che ha la stessa funzione che possedeva nell’antichità: mostrare il mondo reale con i suoi vizi e le sue virtù, ma estremizzando, eccedendo, superando le colonne d’Ercole, per cercare di rispondere alle grandi domande che i terrestri si pongono.

Il cinema necessita di più film come The Lighthouse, di film che inglobino lo spettatore e lo portino con lui all’estremità dell’umanita. Ciò che più appare lontano e ciò che più affascina. Ma per diffondere questo tipo di cinema c’e bisogno di una casa di produzione che abbia il coraggio di osare, come l’A24, la quale si è fatta notare nella notte degli Oscar di quest’anno per film come The Whale (2022) ed Everything Everywhere All at Once (2022), ma aveva già prodotto capolavori autoriali come Il sacrificio del cervo sacro (di Y. Lanthimos 2017), Macbeth (di J. Coen, 2021) e C'mon C'mon (M. Mills, 2021) oltre a The Lighthouse, e inoltre aveva distribuito Enemy (D. Villeneuve, 2013), The Lobster (Y. Lanthimos, 2015), The Witch (R. Eggers, 2015), A Ghost Story (D. Lowery, 2017), Good Time e Diamanti grezzi (Josh e Benny Safdie, 2017 e 2019), Midsommar (A. Aster (2019), First Cow (K. Reichardt, 2019) The Green Knight (D. Lowery, 2021) e altri. Una casa di produzione che sa prendersi dei rischi e che ora ne raccoglie i meriti, sperando che prosegua verso questa direzione, continuando a sconvolgere lo spettatore. Perchè oggi abbiamo bisogno di questo, di emozioni viscerali, di qualcosa che destabilizzi profondamente, che emerga e si distingua in mezzo ad un tripudio di film dimenticabili. Il pubblico necessita di film da ricordare, da riguardare, da consigliare, da idolatrare. Non importa quanto siano disturbanti. Solo dalla rottura è possibile una nuova restaurazione. Solo lo sconvolgimento degli orizzonti d’attesa porta ad istituzionalizzarsi. L’A24 sta conducendo la sua piccola rivoluzione.

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