"Il postino": sul trasumanare, o delle corrispondenze amorose.
- cinebucolico
- 9 nov 2022
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 11 nov 2022
a cura di: Valerio Mangini.
Poco più di 28 anni fa, esattamente il 22 settembre del 1994, usciva nelle sale italiane Il postino (The Postman, nel resto del mondo), il (quasi, per chi scrive) capolavoro di Robert Radford e Massimo Troisi – anche co-sceneggiatori, insieme alla compagna di una vita, lavorativa e non, di questi, ossia Anna Pavignano, e al Furio Scarpelli del duo Age & Scarpelli, firma di una moltitudine di commedie nostrane. Il film, libera reinterpretazione del romanzo di Antonio Skármeta Il postino di Neruda, segue le vicende di Mario Ruoppolo, uno spiantato senza arte né parte, figlio (secondo un’antropologia famigliare di altri tempi, piuttosto allargata) di una comunità di pescatori del Sud Italia, isolana e isolata, fieramente ancorata alle tradizioni (siamo agli inizi degli anni Cinquanta, quello che altrove è il miracolo economico qui è lo spettro di una crisi della presenza)e pervicacemente aggrappata ai ritmi naturali di un’isola dalla geografia incerta – le cui immagini sono ricavate da riprese effettuate tra Procida e Salina.

Una comunità tradizionalista ma non per questo chiusa alle idee a ai protagonisti della temperie culturale coeva, che difatti riserva un’accoglienza con tutti i crismi al grande (fuori e dentro il film) poeta Pablo Neruda, allora anche (ex) senatore comunista, in esilio, dal 1949, a causa della sua strenua opposizione al regime del presidente cileno Gabriel González Videla. La Storia, lineare e progressiva, penetra in un mondo magico, rituale, fuori dal tempo e quindi sempre uguale a se stesso, significativamente attraverso le immagini di un cinegiornale – una catastrofe, nel senso originario del termine, che fa il paio con quella “televisiva” raccontata ne Le meraviglie di Alice Rohrwacher e che, come nel Postino, è all’origine di nuovi culti e di nuovissime mitologie –; tra gli spettatori troviamo Mario, entusiasta per la notizia dell’arrivo di Neruda, poiché è una novità che è anche rottura di una lunga e sfiancante stasi, ignaro che da lì a poco ne sarebbe diventato il portalettere personale. La profonda amicizia tra Mario e il poeta cileno, che ben presto assume i tratti della relazione maestro-allievo – perlopiù come dialogo, che è anche una delle forme letterarie più fortunate dell’intera storia del pensiero occidentale, almeno da Platone in poi, passando, non a caso, per la Commedia dantesca –, è sicuramente uno dei temi portanti del film, ma è da non trascurare la componente politico-ideologica che ne anima soprattutto la seconda parte e che, seppur ridimensionata nel passaggio dal libro allo schermo cinematografico, rimane comunque un’importante chiave di lettura della pellicola nel suo complesso: Radford e Troisi non tradiscono lo spirito militante del testo di Skármeta, che pure si radica nel Cile di Allende e poi, come noto, nella dittatura militare di Pinochet, bensì lo traducono, lo adattano all’Italia del secondo dopoguerra, impegnata a ricostruire dalle macerie fisiche e morali del Ventennio e dell’occupazione nazifascista, con un occhio sempre rivolto alla lezione neorealista. Un’Italia certamente marginale, sotto molti punti di vista, quella in cui vive Mario, eppure laboratorio privilegiato per l’osservazione in vitro di certe dinamiche e strategie politiche a dir poco torbide che, se da una parte finiscono per annullare ogni speranza di riscatto degli ultimi, confinandoli definitivamente, in virtù di promesse non mantenute, nella loro disgrazia, dall'altra fanno comunque vincere le elezioni – ieri come oggi? Amicizia e politica, tuttavia, non sono gli unici elementi della Bildung di Mario; Neruda è un poeta dal talento universalmente riconosciuto, e ha fama di essere ministro dell’amore carnale con delega alla parola cortese.

L’amore, ah, l’amore; e la poesia, che qui è suo sinonimo, ma anche figura retorica, un po’ sineddoche un po’ metonimia, anzitutto metafora, cioè “porta fuori”. Da dove, e verso dove? “Trasumanar significar par verba non si poria”, scrive il già citato Dante nella Divina Commedia, Paradiso I. Cioè: il “trasumanar”, il trascendere le proprie condizioni umane, è un’esperienza che non si può raccontare a parole, sia perché non se ne trovano di sufficientemente adeguate che per la difficoltà a ricordare ciò che si è esperito nel momento in cui si è usciti da sé, in totale apertura al divino. Ciò che rimane sono impressioni, sensazioni, immagini: l’anima, fuoriuscita (temporaneamente) dal corpo mortale, osserva i misteri dell’universo (di)spiegarsi davanti a lei. Dante, nella Commedia – Paradiso XXXIII –, termina il cammino nell'aldilà cristiano proprio con l’esperienza del trasumanare, volgendo gli occhi a Dio, grazie all'intercessione – un mirabile gioco di sguardi – di San Bernardo e della Madonna, ma anzitutto di Beatrice. Mario ha ambizioni più contingenti, ma non per questo gli è preclusa l’esperienza del trasumanare: la sola vista della sua Beatrice (Russo, una giovanissima Maria Grazia Cucinotta) lo priva della parola, lo sbalza in una dimensione altra. Trasporto, spostamento. In una parola: metafora. Immagine che si fa verbo senza ridursi alla lettera del testo, puro attraversamento di confini. In quanto immagine, è la percezione di una sporgenza, direbbe Benjamin, di un’irriducibilità del significato (la cosa rappresentata) al significante (la rappresentazione). Pablo Neruda, moderno Virgilio, insegnando a Mario a pensare per metafore gli trasmette quindi l’arte della sporgenza: il sentimento dell’eccedenza in tutte le cose, persino in se stesso, molto più che il figlio disgraziato di un pescatore; gli dona il linguaggio di una vita nova, la forza spirituale per fissare lo sguardo in quello di Beatrice, per trasumanare senza afasia né oblio in una sovrimpressione fotografica, in un quadro che è insieme emblema della finitudine e metafora per l’eternità. Quell’eternità che Mario, in un nuovo e audace attraversamento di confini, riversa, quasi fosse dotato di una consapevolezza mèta, nella persona del suo interprete: l’indimenticato Massimo Troisi.

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