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"La Dolce Vita": il senso di inadeguatezza dell'uomo, gli eccessi e piaceri effimeri.

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 7 nov 2022
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 3 dic 2022

a cura di: Carmen.

Ho sempre trovato fascino nelle terminologie delle parole, specie quando quest’ultime acquisiscono un significato completamente diverso se decontestualizzate e “La dolce vita” ne è l’esempio lampante. Questo slang, coniato da una delle più celebri pellicole di Federico Fellini, lo troviamo nelle brochure degli eventi in discoteca, titoli di canzoni, tote bags, qualsiasi altro merchandising e son tutti elementi legati da un comune denominatore: uno stile di vita spensierato costellato di piaceri effimeri.

Ma questa vita è davvero dolce?

La vicenda si svolge a Roma, nel 1960 e il protagonista è Marcello Rubini (Marcello Mastroianni), giornalista che scrive per un rotocalco articoli mondani, in cui figurano fatti e personaggi noti nell'ambiente di Via Veneto, sognando di diventare un affermato romanziere. Attraverso una serie di episodi che si svolgono nella zona più mondana di Roma, Marcello appare disorientato, arranca nel tentativo vano di una ricerca profonda per ritrovare quei valori perduti e ideali sinceri di cui conosce l'esistenza, ma che non riconosce più nella realtà che lo circonda.

La dimensione in cui si sviluppa la trama è, come in quasi ogni film di Fellini, quella onirica e trasognata. La maggior parte degli episodi si svolge di notte, dove tutto può accadere, ma l'alba riporta tutti alla realtà e i personaggi, come creature notturne, rifuggono il sole per tornare alle loro misere vite di tutti i giorni. Marcello, alter ego del regista, fa i conti con il gusto e il disgusto dell'ambiente in cui vive, rischiando in ogni istante di perdersi in quella “giungla” che è la città di Roma, tra i suoi variegati abitanti e passanti.

La dolce vita di Federico Fellini è lo specchio del boom economico degli anni Sessanta del Novecento e descrive tutte le contraddizioni e le inquietudini della contemporaneità di quell'epoca, con un tocco di cinismo beffardo tipico del regista. In questo film, ogni aspirazione di successo si dissipa con l’avvento di Marcello nella cerchia d’élite di Via Veneto ed è proprio in un contesto vertiginoso, fatto d’apparenza e sfarzo, che i tormenti e il lato oscuro del protagonista si fanno sempre più vividi: Marcello vorrebbe fare il romanziere ma non pensa di avere le competenze, vorrebbe baciare Sylvia (Anita Ekberg) ma non ne ha il coraggio, vorrebbe un rapporto più intimo con il padre ma fatica nel comunicarlo. Questa sua incomunicabilità è resa palese nella sequenza finale del film in cui ci viene mostrato l’aspirante romanziere, reduce da una festa in una villa vicino al mare, che sente una voce che lo chiama: è Paola (la ragazzina conosciuta al bar all'inizio del film interpretata da Valeria Ciangottini) simbolo dell’innocenza e della purezza che sembra voler convincere Marcello a lasciar perdere il gruppo di scapestrati alle sue spalle per andare via con lei, ma il protagonista non riesce a sentirla per via delle onde del mare che si stagliano sulla riva, non coglie l’ultima finale occasione di ricongiungersi ai suoi principi morali, perché è entrato nel vortice di una vita artificiosa, capace di placare la sua accidia, si limita ad alzare le mani e lo sguardo al cielo in segno di rassegnazione. Paola lo guarda ricongiungersi al gruppo festaiolo, per poi dedicare alla camera il suo ultimo sguardo, prima che la sequenza si dissolva, dando margine ad una proiezione su sfondo nero che richiama il titolo del film a chiudere il lungometraggio.

La Dolce Vita è tutto fuorché un film romantico, esso impone un nuovo modo di guardare alla realtà: traccia un quadro più ampio e trasfigurato, capace di trattenere il respiro di un'intera epoca, al punto da diventare il paradigma non solo poetico ma soprattutto storico del suo immaginario. Può essere considerato come un laborioso e barocco apologo sulla meschinità del mondo che ruota attorno alla "dolce vita", in una Roma che non è Roma e in situazioni che sono e non sono reali, arricchita da personaggi plastici, privi di principi morali, alla ricerca di una felicità effimera. Altrettanto interessante è l’aspetto sacrale all'interno di questo film: a partire dalla figura del Cristo, amara parodia del ritorno di Dio in un mondo che non lo riconoscerebbe più, che apre la sequenza del lungometraggio; fino alla scelta (non inusuale) di alcuni nomi biblici associati alle figure femminili. In effetti, questo film è stato paragonato a una nuova e moderna "via crucis", a una discesa all'inferno, una moderna Commedia dantesca. Si ha quindi un avvicinamento ai temi più profondi dell’esistenza umana e a tal proposito, abbiamo una fonte interessante, ricavata da un'intervista del 1960 fatta a Pier Paolo Pasolini, in cui rilascia il suo pensiero riguardo alla “Dolce Vita” di Fellini, definendolo “un film cattolico” e smuovendo un pensiero profondo interessante:

“Guardate la Roma che egli descrive: è difficile immaginare un mondo più perfettamente arido. Un'aridità che toglie vita, che angoscia. Vediamo passare davanti ai nostri occhi un fiume di personaggi umilianti, in un umiliante spaccato della capitale: tutti cinici, tutti meschini, tutti egoisti, tutti viziati, tutti presuntuosi, tutti vigliacchi, tutti servili, tutti impauriti, tutti sciocchi, tutti miserabili, tutti qualunquisti: è la mostra della piccola borghesia italiana in un suo ambiente che ne esalta gli aspetti, che la brucia in una tetra luce evidenziante. Ad essa si mescolano, dall'alto e dal basso, dei mostri, irrelati, irriferibili: dall'alto i nobili, dal basso i sottoproletari, e vi portano una ventata che a suo modo è pura, è vitale. Ma come essere riusciti a vedere purezza e vitalismo anche nella massa piccolo-borghese che brulica in questa Roma arrivista, scandalistica, cinematografata, superstiziosa e fascista, mi sembra una cosa incredibile. Eppure, non c'è nessuno di questi personaggi che non risulti puro e vitale, presentato sempre in un suo momento di energia quasi sacra. Osservate, non c'è un personaggio triste che muova a compassione: a tutti tutto va bene, anche se va malissimo. Vitale è ognuno, nell'arrangiarsi a vivere, pur col suo carico di morte e di incoscienza. Non ho mai visto un film in cui tutti i personaggi siano così pieni di felicità di essere: anche le cose dolorose, le tragedie, si configurano come fenomeni carichi di vitalità, come spettacoli. Bisogna davvero possedere una miniera inesauribile d'amore, per arrivare a questo: magari anche d'amore sacrilego... Il neo decadente Fellini è colmo di tale amore indifferenziato. Ed è questo amore che - se, per essere irrazionale, e quindi «per contraddi­zion che no'l consente», non ha dato un capolavoro - ha dato però degli altissimi frammenti di capolavoro.”

Conclusioni Spero di essere riuscita, in qualche modo, a suscitare il vostro interesse nel guardare questo film con occhi meno superficiali e ad avere una percezione più nitida, sul messaggio criptato che Fellini aveva intenzione di far recepire al proprio spettatore. So bene che i suoi film non sono semplici da comprendere, ma una volta colto il fulcro del pensiero artistico e interpersonale del regista, sono sicura che lo amerete alla follia tanto quanto lo amo io. Lasciatemi tra i commenti il vostro parere al riguardo, Carmen.

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