La figlia oscura: la trasposizione cinematografica del romanzo di E.Ferrante a cura di M. Gyllenhaal
- cinebucolico
- 14 gen 2023
- Tempo di lettura: 4 min
A cura di : Carmen.
Trasponendo con grande fedeltà il libro di Elena Ferrante ma volgendolo in uno scenario internazionale, “La figlia oscura” è un toccante racconto sull'essere donna e madre: una vera e propria introspezione sull'interiorità e l'intimità di Leda (Olivia Colman), che in un preciso spaccato della propria vita riflette sui concetti di famiglia e genitorialità. La protagonista è Leda Caruso (Olivia Colman; Jessie Buckley nei flashback) professoressa di letteratura comparata in vacanza in Grecia. Durante il soggiorno, l’incontro con Nina (Dakota Johnson) e sua figlia Elena (Athena Martin) le ricorda l’infanzia travagliata delle sue due figlie, Bianca e Martha, mentre ripercorre la sua gioventù. Pensa alla donna che è stata, alla moglie che è diventata, alla madre che avrebbe dovuto essere e nell'affezionarsi a Nina, giovanissima ragazza madre in attesa di un figlio e coinvolta in una relazione soffocante, rivede sé stessa, giovane moglie e madre in carriera, intrappolata in un matrimonio che la fa sentire in gabbia, incapace di trarre forza dall'amore delle sue bimbe.

La tensione serpeggiante che scandisce il soggiorno solitario di Leda stride con l’ambientazione vacanziera in cui è calata: eventi di per sé banali si caricano di una valenza ulteriore, di una forza perturbante che risuona col suo vissuto, disattendendo ogni tentativo di svago o di riposo. A tormentarla sono i fantasmi delle scelte controverse compiute in giovane età quando, sentendosi annullata dalle incombenze di madre, abbandona per diversi anni le figlie e il compagno per perseguire una sua realizzazione personale. Lontana dal prototipo virtuoso di donna disposta a consacrare la propria vita ai figli o capace di conciliare le cure domestiche con le ambizioni lavorative, Leda incarna le difficoltà e le contraddizioni, incluse quelle aberranti e quindi taciute, dell’essere madre. Ciò la rende una figura irrisolta, a un tempo vittima e carnefice, capace di disorientare lo spettatore che viene ora portato a empatizzare con lei e la sua frustrazione, ora a dissociarsi dagli aspetti più scabrosi del suo agire e, addirittura, a provare un senso di disagio per l’immedesimazione prima esperita.

Questo sembra espresso anche a livello intradiegetico dal comportamento dei villeggianti che, sebbene ignorino il vissuto di Leda, la trattano con sospetto e diffidenza, finanche con disprezzo, come se trascinasse con sé il peso delle sue azioni. In tal senso gli avvenimenti ripugnanti che ricorrono nel suo appartamento e che si trova a ricacciare a più riprese – la cesta di frutta che si rivela putrida e infestata dai vermi, il risveglio notturno con una grossa falena sul cuscino, il lombrico che fuoriesce dalla bocca della bambola di cui si prende cura, ecc.– se da un lato si fanno presagio di un male inevitabile (esibito sin dall’incipit), dall’altro si configurano quali rimandi allegorici ai vani tentativi della protagonista di reprimere i suoi impulsi più conturbanti, destinati a riemergere.
Maggie Gyllenhall, anche sceneggiatrice oltre che regista del film, traspone su schermo le pagine del romanzo originale con fedeltà impressionante, senza tralasciare quasi nessun dettaglio la scrittura di Ferrante, e anzi dando forma al racconto indiretto della giovinezza di Leda, affidando al talento della Buckley alcune delle sequenze più riuscite del film. Il film è privo di grandi eventi, ma nella ripetitività di giornate che scorrono sempre uguali, all’insegna di un ozio poco rilassante e del costante rimuginare, costruisce una progressione dove le consapevolezze aprono varchi alla comprensione di sé.

Il presente è interrotto da echi del passato attraverso flashback esplicativi che chiariscono le cause del dissidio interiore della protagonista, una bambola sottratta diventa perno intorno a cui ruota la solidarietà delle due protagoniste, una telefonata riaccende (un po’ bruscamente) la speranza. La Gyllenhaal non osa granché dal punto di vista visivo e riveste il film di una patina indipendente (taglio intimista, macchina da presa spesso manuale addosso ai personaggi, luce neutra che non esalta la presunta bellezza dei luoghi, ripetitività come motore narrativo), forse un po’ convenzionale ma in grado di trasmettere ciò che le interessa: il disagio di una donna nel districarsi tra i ruoli sociali. Scelte musicali brillanti e originali puntellano fin troppo, ma piacevolmente, la scansione degli eventi. Maggie Gyllenhall porta in scena un personaggio femminile capace di destare interesse, sollevare spunti di riflessione ed emozionare. Lo sguardo della regista si sofferma su ciò che rende donna la sua protagonista, prima che madre. Le curve sinuose sott'acqua rendono bene l’idea di una femminilità ritrovata, a lungo sopita, ma sempre desiderosa di riemergere. Sono i dettagli a fare di questa pellicola un’opera intima e profondamente sentita. L’ambientazione marittima contribuisce a caratterizzare la personalità e gli stati d’animo di Leda. In cerca di una libertà che quasi sicuramente non potrà darle quello che spera, oppressa da un senso di colpa impossibile da cancellare, ha sprecato la sua via. La cerca nei libri, oppure nella fuga, ma nulla le restituirà gli anni passati e ormai perduti.

La maternità è al centro della pellicola. Il confronto/parallelismo tra le storie di Leda e di Nina permettono di portare avanti il discorso e di evidenziare le dinamiche tra madri e figlie. Le rivalità, le recriminazioni, ne fanno parte tanto quanto i gesti d’affetto e le confidenze. Le due donne trovano un canale privilegiato di comunicazione, grazie al quale possono lasciarsi andare. Senza paura del giudizio altrui, ma senza neanche stabilire un convenzionale rapporto di amicizia, si aprono l’una all'altra.
Comments