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Lazzaro Felice

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 24 mar 2023
  • Tempo di lettura: 5 min

a cura di: Carmen.

Presentato al festival del cinema di Cannes nel 2018 e vincitore della palma d’oro per la miglior sceneggiatura, “Lazzaro Felice” si pone come lente d’ingrandimento nel mondo rurale che Alice Rohrwacher propone assiduamente nelle sue pellicole. Lazzaro (Adriano Tardiolo) è nome che pungola e mette in difficoltà, è un nome che smuove e risuona della straordinarietà dell’esistenza. Colui che risorge dopo la morte, che si alza e cammina. La Rohrwacher racconta un personaggio che sa di ingenuità e candore, è un’anima bella, un puro senza contaminazione alcuna, che non è stato modellato dalla civiltà, immune al progresso. Lazzaro è felice, gentile, appagato, è un mezzadro e poi con la stranezza di uno che si alza e cammina, entra nell'era industriale come se niente fosse. Il giovane non è capace di avere un suo giudizio, non capisce dove stia il bene e il male, segue gli ordini perché è fatto per fare ciò, lavora senza fermarsi mai, fino alla fine. Lazzaro non è mai stanco, non è mai triste, sorride innocente mostrandosi per una cellula diversa dalle altre che spesso infastidisce, fa paura e suscita disprezzo.

Strutturato in due parti della stessa lunghezza, ma contrapposte, contiene in sé sia aspetti attuali che inattuali. La prima parte del film è ambientata in campagna, la seconda in città. Non viene mai detto il nome della zona esatta in cui i contadini vivono, si può intuire la loro provenienza dall'accento marcatamente toscano, ma la città, che dovrebbe situarsi non lontana dal podere dell’Inviolata, rimane anonima. La storia è legata alla tradizione italiana e contadina, ma anche ai problemi della società contemporanea (evidenziati soprattutto nella seconda parte). Non volerla localizzare in un luogo preciso significa trasformarla in una fiaba e dare la libertà allo spettatore di collocarla dove preferisce lui. Questa anonimia rispecchia la volontà dell’autrice di raccontare una storia fuori dal tempo.

Nella prima parte, la regista osserva con sguardo attento una comunità di contadini che viene sfruttata dalla Marchesa Alfonsina de Luna, produttrice di sigarette, ignari della fine della mezzadria. I mezzadri vivono nel podere dell’Inviolata, isolati dal mondo e in condizioni riprovevoli: non ci sono letti a sufficienza o lampadine per illuminare tutte le stanze I personaggi vengono mostrati nelle loro mansioni di tutti i giorni mentre raccolgono le foglie di tabacco, lavorano il fieno, bruciano le sterpaglie. La macchina da presa inquadra con attenzione i dettagli: la mano di una ragazza che si gratta una puntura sul ginocchio, una signora che mangia le zampe di gallina, le mani dei diversi contadini che tastano la fronte di Lazzaro per sentirne la temperatura. Tutti questi momenti contribuiscono al realismo del film, mentre la storia presenta degli elementi fiabeschi. Lazzaro è un contadino buono, ingenuo, sfruttato da tutti. Accetta con tranquillità di fare qualsiasi cosa per aiutare il prossimo, e non capisce quando gli altri lo deridono. Lazzaro rappresenta tutti quei mezzadri che vengono usati e sfruttati ma mentre gli altri tentano di ribellarsi, lui invece continua a vivere in questa sua cocciuta felicità. Anzi, Lazzaro felice è anche la storia di un’amicizia: il ragazzo incontra Tancredi, figlio della nobildonna, incredibilmente si capiscono, pur essendo facce opposte della “stessa” gioventù. L’uno è ingenuo, buono, lieve, l’altro è ribelle, insofferente dell’autorità materna, tabagista incallito, moderno nell’atteggiamento e nello stile. Tancredi decide, finge di essere stato rapito, sceglie, proprio in virtù della dolce e delicata natura dell’amico, di essere rintracciabile solo da lui.

Qualcosa di straordinario accade, a sparire è un mondo intero. Il progresso cancella la mezzadria e quella comunità rurale viene traslocata in una città per continuare paradossalmente a vivere nello “stesso” stato di emarginazione. La Rohrwacher sa come raccontare personaggi come Lazzaro scarni e “depauperati” dagli orpelli dell’esistenza, ed è capace anche di narrare un mondo rurale come anche quello industriale e ciò che ne viene fuori è un’istantanea contemporanea e molto reale. Quello di Lazzaro felice è un viaggio doppio nell'umanità buona del protagonista e in quella egoista, coercitiva e dura del mondo che lo circonda; il racconto della regista si fa anche narrazione dell’evoluzione dell’uomo che non comprende i suoi errori e i suoi inciampi.

Tutto ricade su Lazzaro che diventa specchio su cui tutto si riflette e si “scarica”: è confronto ma anche metafora di ciò che l’uomo non fa e di ciò che fa, delle contraddizioni, delle crudeltà e della gentilezza.

L’incontro tra Lazzaro e Tancredi, il figlio della Marchesa, è un altro momento significativo della prima parte. Nonostante tra i due sembri svilupparsi un legame d’amicizia che li porta a vivere alcune avventure insieme, Lazzaro rimane sempre, per tutto il corso del film, in un gradino inferiore rispetto a Tancredi. Mentre i sentimenti che prova Lazzaro sono sinceri, per Tancredi sembra essere tutto un gioco. Tancredi è un personaggio eccentrico, quasi teatrale che si nasconde nel rifugio segreto di Lazzaro, vicino alla stalla delle pecore, per ribellarsi al dispotismo materno scrivendole addirittura una lettera di riscatto dopo aver finto di essere stato rapito. Tale lettera viene presa seriamente dalla fidanzata di Tancredi che decide di chiamare le autorità di nascosto alla marchesa (consapevole che la lettera sia stata un capriccio del figlio), segnando così la fine della schiavitù dei contadini che si ritrovano a dover ricominciare una nuova vita in città. In seguito, Lazzaro incontra Antonia (Alba Rohwacher) e altri membri della comunità contadina: la situazione per loro non è cambiata, anzi, è quasi peggiorata. Vivono di truffe e di furti in una specie di cisterna riadattata ad abitazione in mezzo ai binari.

Sono rimasti degli emarginati della società nonostante siano stati liberati dalla schiavitù contadina, non sono riusciti ad integrarsi e a migliorare la loro condizione. La loro vicenda era stata riportata nei giornali con il titolo «Il Grande Inganno», ma i carabinieri che li hanno salvati, in realtà non sono riusciti a salvarli dalla società.

Una parabola morale che non fa la morale, ecco cos'è Lazzaro Felice. Attraverso il corpo magico di Lazzaro, Rohrwacher passa in rassegna il suo cinema e quello degli altri. Olmi, Taviani, Pasolini, Citti e forse tanti altri, mai semplicemente citati o sterilmente riproposti, ma introiettati al punto da oltrepassare il confine della riverenza. È un cinema che parla di cinema, talmente libero e personale che finisce per essere il “suo” cinema e nient’altro. Quello che ribadisce con orgoglio è una distanza siderale con (tutto?) il cinema italiano di oggi: nulla a che fare con i pionieri della nouvelle vague neo-neorealista, né con gli stilemi del cinema borghese, tanto meno niente da spartire con il cosiddetto “cinema femminile”. L’unicità dell’opera risiede nel suo manifesto menefreghismo verso i codici del buon cinema d’autore, del gesto allegorico riconosciuto, le aspettative di una critica che vuole riconoscere i modelli e di un pubblico che vuole pronta la spiegazione. Alice Rohrwacher fa il film che vuole fare senza preoccuparsi di nient’altro e il susseguirsi di stramberie e incoerenze, false partenze e detour non richiesti, colgono unicamente la sincerità di un’autrice libera, il cui scopo è di essere fedele alla propria visione e urgenza espressiva. Di questo brilla Lazzaro felice, un film-scatola aperta, problematico e multiforme.



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