top of page

MEDEA E SYLVIA PLATH: STORIA DI UNA LACERAZIONE

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 19 ott 2022
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 11 nov 2022

a cura di: Sara Narcisi.


Acqua che abbraccia, acqua che avvolge, acqua che sommerge. Una distesa di sabbia bagnata e invisibile stravolta dal vento che, come una nuvola, si appoggia atrocemente sulle cose. Un corpo di donna, disteso sulla riva simile a un cadavere, con le gambe stese e le braccia aperte, il volto contratto, sofferente, bianco.



È Medea, sola e fragile e inconsumabile e inarrestabile e sofferente e atroce, mostrata sapientemente da un Lars Von Trier completamente immerso nel suo stile – in regola con “Dogma 95”, collettivo fondato a Copenhagen da registi che aderiscono a un cinema minimalistico, basato sull’utilizzo della luce naturale, sul suono in presa diretta, sull’utilizzo della camera a mano – capace di trasmettere la tragicità e la solitudine – molto più che l’isolamento – di una donna che presto sarà travolta dagli eventi o molto più verosimilmente da se stessa e che per questo lentamente si dissolve in una spirale ripresa dall’alto, metafora della circolarità del tempo e della vita e del dolore, per lasciare spazio al vento, all’acqua, al mare, alle onde e alle nuvole – elementi naturali fotografati attraverso il chroma key, una particolare tecnica di retroproiezioni in grado di decolorare le immagini. È questa la Medea descritta nella prima scena da Lars Von Trier – che richiama l’esordio di Melancholia (2011) - e tanto simile al racconto originario di Euripide, che nell’omonima tragedia la descrive in principio come una donna disperata ma non sopraffatta dal dolore, che “giace senza toccare cibo, preda di dolori, struggendosi di lacrime tutto il tempo”.



Ma chi è veramente Medea? Quanto è possibile condannarla e quanto, invece, sostenerla?

È veramente possibile immedesimarsi in lei senza provare disgusto? È veramente possibile, al contrario, non sentire nulla, neppure un briciolo di comprensione, per una donna tanto feroce e tanto umana? La Medea raccontata da Lars Von Trier è devastante, ipnotica, nevrotica; spaventa e terrorizza perché il suo dolore è quello di una mano che resta incastrata in una porta. E il regista, coerente con se stesso e con la sua produzione cinematografica, mostra allo spettatore quello che egli non desidererebbe mai vedere, è perturbante tanto quanto Euripide e tanto quanto Pasolini (nella sua trasposizione cinematografica di Medea nel 1969) perché le sue immagini – forti come quelle di Bergman o di Tarkovsky – sono specchi rotti, dissacrano, uccidono e sono ciò che rende il cineasta un “masturbatore dello schermo”.

Uno schermo che è in verità un vetro in grado di separare la finzione dalla realtà, la scrittura dalla vita, la simulazione del dolore dal dolore stesso, di proteggere lo spettatore dalla violenza delle immagini che discendono dissacranti e perturbanti e angoscianti, di creare un “muro” tra la normalità della vita e la follia della vita, tra l’anima come dovrebbe essere e l’anima come realmente è, tra chi l’uomo appare e chi l’uomo può diventare qualora sconvolto, assalito e sommerso – come dall’acqua nella scena iniziale del film – dalla sensibilità.

Ora mi rompo in pezzi che volano intorno come clave” – scriverà molti secoli dopo Sylvia Plath, scrittrice che condivide con il personaggio di Medea la ferocia, la violenza del sentimento, l’orrore, lo spavento, l’eccesso di sensibilità e soprattutto il terrore di rompere quel vetro che un tempo la separava e la teneva al riparo dalla vita vera e soprattutto da se stessa. E se “La campana di vetro” per Sylvia era questo – una protezione destinata a lacerarsi -, lo stesso si può affermare per Medea, che – inizialmente ferita e sanguinante – compie un processo di smarginatura, di sradicamento da se stessa, di dissolvenza, di lacerazione per tutta la durata della tragedia (vale a dire solo per 24 ore), attraverso la quale Euripide stilisticamente e metaforicamente “rompe” il vetro che separa la vera realtà dell’uomo dall’astuta e calma finzione. E, dunque, se l’intento di Euripide era quello di mostrare l’inferno che è in ogni uomo e nello specifico in una donna quale Medea, l’intento di Sylvia Plath era quello di raccontare l’inferno che aveva dentro.

Mi manchi come l’inferno, non posso sopportare di stare con persone che non sono te” è quello che scrive Sylvia in una lettera al marito Ted Hughes, che ama di un amore malato, fragile, sconclusionato, feroce, instabile, atroce tanto simile a quello provato da Medea per Giasone – personaggio dialettico, diametralmente opposto, che simboleggia la terra e non l’acqua. Sarà Medea, infatti, a dire che “non c’è dolore più grande dell’amore”, a interpretare il sentimento amoroso come una malattia, allo stesso modo di Sylvia che scriverà di essere “malata, fisicamente malata” e che di sé dirà: “piango; poso la testa sul pavimento; soffoco, odio mangiare; odio dormire, o andare a letto… Vivo in una sorta di morte in vita”.

L’amore è un’ombra. Come lo insegui con menzogne e pianti. Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via, come un cavallo” – scriverà in Olmo. Amore che è malattia, follia disperata, perdizione e soprattutto lacerazione; amore che è in grado di elevare (“Cominciai a germogliare come un rametto di marzo: un braccio e una gamba, un braccio, una gamba. Da pietra a nuvola, e così salii in alto. Ora assomiglio a una specie di dio e fluttuo per l’aria” – Lettera d’amore) e di far sprofondare sino all’abisso del dolore: il suicidio. Nel 1961 la perdita del figlio iniziò a distruggere i rapporti, già in parte compromessi, tra Ted e Sylvia, che provava una sordida invidia nei confronti del marito poiché egli, scrittore, aveva ricevuto maggior successo e maggiori pubblicazioni in ambito letterario e poetico. La definitiva separazione, avvenuta dopo la nascita del secondo figlio, pare non sia stata determinata dal carattere instabile e dalla patologia di cui soffriva la donna bensì dalla relazione da lui intrecciata con Assia Wevill.

Per questo Sylvia soffriva. Per questo Medea soffriva. Perché suo marito Giasone l’aveva abbandonata per cadere nelle braccia della giovane e bella Glauce, figlia del re Creonte.

È questo l’inizio del dolore. È questo l’inizio della malattia. Èquesto l’inizio della vendetta. È qui che il vetro si rompe.

Una donna in tutto il resto è piena di paura; di fronte alla violenza o al ferro è vile solo a vederlo; ma quando l’offesa la colpisce nel talamo, non c’è cuore al mondo che sia più sanguinario” – sono le parole che Medea rivolge al coro nel monologo sulla condizione femminile, degradante.



Con altrettanta ferocia nei suoi diari Sylvia scrisse: “In me c’è una violenza incandescente come il sangue della morte. Potrei suicidarmi, adesso lo so, o persino uccidere qualcun altro. Sarei capace di ammazzare una donna e ferire un uomo. Penso che ci riuscirei. Ho stretto i denti per tenere a bada le mani, ma mentre guardavo fisso quella sfacciata ho sentito in testa un’esplosione di stelle sanguinose e un desiderio sanguinario di saltarle addosso e ridurla in maledetti brandelli sanguinolenti e pulsanti”. Non è forse la stessa violenza provata da Medea nei confronti di Giasone? Non ha anche Medea lo stesso desiderio di uccidere, di ferire per sempre Giasone? Non riduce forse Medea anche Glaucein brandelli sanguinolenti e pulsanti?

Forse l’unica vera differenza tra le due donne è nella lucidità con la quale compiono violenza; Medea elabora un piano con il quale possa vendicarsi di tutti in una sola volta, con il quale possa colpire e uccidere moralmente Giasone privandolo della cosa più importante, ovvero del frutto del loro amore, e di Glauce, che, pur innocente, ha colpe agli occhi di Medea e muore avvelenata in una sequenza nella quale attraverso l’esposizione doppia Lars Von Trier sovrappone le immagini dell’avvelenamento della donna con quelle della corsa di un cavallo ferito e poi morto su una spiaggia.Sylvia, invece, si suicida con la testa nel forno nella notte dell’11 febbraio 1963, mentre Ted è lontano, in un appartamento che aveva iniziato ad abitare con l’amante Assia per isolarsi totalmente dalla follia sensibile della moglie. Il suo è un suicidio poco lucido e poco progettato; Sylvia scrive la sua ultima poesia, Orlo, mette a letto i bambini, prepara la colazione per l’indomani, si chiude nella stanza e getta la testa nel forno. La sua morte non è voluta, è un grido d’aiuto, lo stesso contenente nella poesia Olmo, dove scrive di aver “patito l’atrocità dei tramonti”, di essere “abitata da un grido” che “di notte esce svolazzando in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare”, di essere terrorizzata da “questa cosa scura che dorme in me” e della quale sente “il tacito rivoltarsi piumato, la malignità”. Prima di morire scrive su un biglietto il numero del suo medico: Sylvia voleva essere salvata. Sylvia voleva essere salvata da Ted.

Uccidendosi uccide non solo se stessa ma anche i suoi figli – che resteranno sempre pietrificati e terrorizzati dalla sua immagine – e suo marito Ted, che nella sua poesia The inscription confessa i sensi di colpa, enormi e incolmabili, provati per la morte di Sylvia.

Ted avrebbe potuto salvare Sylvia, ma Giasone avrebbe potuto fare lo stesso con Medea?

Avrebbe potuto salvarla dal suo dolore, dall’uccisione dei figli?

Lars Von Trier mostra l’infanticidio in tutto il suo terrore, vale a dire in una sequenza che sembra non finire mai nella quale persino i bambini sono consapevoli inconsciamente di ciò che li attende. Èimpossibile essere dalla parte di Medea – è questo quello che il regista ci racconta. È impossibile non provare ribrezzo per il suo atto, è impossibile non essere disgustati dalla sua rabbia, dalla sua vendetta, dalla scelta di uccidere l’anima di Giasone uccidendo i loro figli e uccidendo conseguentemente anche se stessa costringendosi a diventare carnefice del proprio dolore, a separarsi da ciò che un tempo l’aveva resa donna e madre e moglie.

Anche quello di Medea è un suicidio; tuttavia, non è lei a morire ma i suoi figli, non è il suo corpo a morire ma la sua anima.

Giasone non avrebbe potuto salvarla; in una delle ultime sequenze del film, dopo aver visto i corpi dei figli impiccati su un albero, corre fra boschi e praterie immense, minuscolo nell’infinità della morte. Corre verso i suoi figli, corre verso la morte. Cade, infine, sommerso non dall’acqua ma dalla terra, che lo rappresenta in quanto uomo razionale e pragmatico. E come l’incontro con il re Creonte era avvenuto in un luogo sotterraneo e il suo matrimonio con Glauce in una caverna, Giasone muore a terra, disteso su un prato mosso dal vento e tanto simile alle onde di un mare che, ormai stanco, si agita nel buio.



Comments


bottom of page