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Mulholland drive – immagini e suoni come costante allusione all’artificio

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 21 nov 2022
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 28 nov 2022

A cura di: Bianca C.



Mulholland drive è un film sul concetto di artificio. È ambientato a Hollywood, regno dell’inganno, dove arte recitativa e attitudine divistica fanno entrambe parte della stessa dimensione spettacolare. La totalità stessa della diegesi è artificiosa, patinata, forzatamente e inquietamente impeccabile: artificiosi sono le cromie e le disposizioni degli interni, i rapporti e dialoghi che i personaggi intrattengono tra loro, le situazioni che si innescano. E anche il modo in cui Lynch sceglie di raccontare è artificioso: primissimi piani astraenti, sequenze narrative che parodizzano a partire dal sistema dei generi classici, ma soprattutto, il lavoro sulla recitazione. Betty è “realistica” e convincente solamente quando sta recitando, altrimenti il personaggio risulta totalmente piatto, forzato e bidimensionalmente ingenuo. La dolorosa realtà di Diane sembra emergere nei momenti in cui Betty si cala nella parte, come piccoli frammenti di verità incanalati all’interno di un ulteriore piano finzionale.



Mulholland drive è un film sul concetto di artificio e Lynch, fin dalla prima sequenza, dichiara che ciò che sta per mostrare non è altro che una serie di immagini su di una superficie bidimensionale: il film si apre con una atemporale “piaga del ballo”, dove silhouettes malamente scontornate danzano senza requie a ritmo del clarinetto di Benny Goodman, su di uno sfondo viola acceso. La scena innesca nello spettatore un’istantanea e comprensibile sensazione di spiazzamento, ma è icasticamente elevabile a chiave di lettura del film e in un certo modo a piccola metafora dello statuto delle arti visive in generale.



Sta proprio qui il punto: seppur consapevoli del fatto che ciò che lo schermo ci mostra è totalmente finzione, la sospensione dell’incredulità si compie ugualmente e il coinvolgimento emotivo non viene scongiurato. È una prova di maestria per Lynch ma anche un insolito gioco che lui mette in atto per noi spettatori, stimolando costantemente le nostre capacità intellettuali e le nostre corde emotive.

Ciò che avviene al Club Silencio è l’inizio della decostruzione della lucida patina del sogno/film, nonché una splendida metafora dell’arte cinematografica. La carrellata che ci trasporta all’interno del Club, dove la macchina da presa sembra preda di una insidiosa bufera di vento, non lascia dubbi: siamo arrivati al punto di non ritorno. Si entra in un tetro teatro e l’impianto metacinematografico viene didascalicamente svelato. Tramite il suono, come ha già fatto attraverso l’immagine, Lynch smonta le certezze che lo spettatore crede di avere e, anche in questo caso, lo palesa fin da subito: “This is all a tape recording, and yet we hear the band. It is an illusion.” Queste le parole del mefistofelico presentatore, che possiede le capacità di un illusionista, e non è altro che personificazione dell’onniscienza registica. Nonostante ciò, la sequenza del Club Silencio tocca picchi di drammatico lirismo, e la performance di Rebekah Del Rio emoziona ogni volta come fosse la prima; la sua voce poi si slega dal corpo, il suono si fa ubiquo, la materia perde consistenza e restano solamente delle onde sonore svincolate, ormai prive di profondità emozionale.



Del club Silencio fa parte anche una figura favolistica, spettrale, fuori dal tempo: la donna-bambola seduta sul palchetto laterale, pesantemente truccata e sontuosamente abbigliata. Lei, così come il clochard dietro al Winky’s, i due anziani signori e il cowboy, va ad occupare un posto di rilievo all’interno della mitologia lynchiana, costituita da tutte quelle figure perturbanti che ricorrono nei suoi lavori. Fantasmi dell’immaginario, personaggi allusivi, simulacri di una porzione del reale a noi sconosciuta, che raramente si affaccia nel quotidiano e che quando lo fa produce in noi un incomprensibile fremito di angoscia.

Al Club Silencio viene evocato anche uno dei principali topoi di Lynch, quello del binomio tra animato e inanimato: i due caratteri spesso si intercambiano in modo arbitrario, i corpi si svuotano come involucri privi di anima o morale, mentre gli oggetti (soprattutto elettrici) prendono vita e lavorano in autonomia. Forze del male sembrano essere in costante agguato e operare attraverso questi perturbanti soggetti/oggetti che sembrano non rispondere a leggi biologiche, ma a stimoli sconosciuti, opachi, raccapriccianti.



Ma c’è di più: il cinema di Lynch ha il potere di decostruire la realtà stessa. Tramite inquadrature anche minime, apparentemente insignificanti, marginali e tramite l’uso dell’oscurità, Lynch riesce a evocare in noi il pensiero dell’infinità di dimensioni Altre. Il non detto, il fuori campo, il non visto, tutto ciò che non si vede ma a cui si allude è sintomo di una o più alterità che sono costantemente presenti attorno a noi. Il quotidiano ribaltato, il conosciuto in chiave sinistra, minacciosa, malata, è sintomo di una serie di forze oscure che sono ciò che accomuna gli incubi collettivi più viscerali.

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