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Petra von Kant: lacrime amare e gusto indifferente

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    cinebucolico
  • 7 dic 2022
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 8 dic 2022

A cura di: Valerio Mangini.


Le lacrime amare di Petra von Kant, adattamento cinematografico dell’omonimo (melo)dramma teatrale di Rainer Werner Fassbinder, qui regista, è anzitutto lo studio di un personaggio e del complesso mondo di relazioni che ruota attorno alla (e attraversa la) sua camera da letto, l’alcova su cui si imperniano le vicende del film. Petra von Kant (Margit Carstensen, corpo nervoso, volto affilato e sguardo tagliente), alle spalle due matrimoni finiti (male, anzi malissimo) e una figlia adolescente tenuta a debita distanza, è una celebrità dell’alta moda – è di sicuro più che una semplice stilista: pare muovere l’industria a piacimento – che abita in un piccolo appartamento (dal quale non ci muoveremo mai, come nell’hitchcockiano Nodo alla gola e nel più recente The Humans di Stephen Karam, anch’essi di origine teatrale) insieme alla propria assistente, Marlene (Irm Hermann), e a un numero imprecisato di inquietanti manichini. Un bel giorno conosce Karin (Hanna Schygulla, la musa di Fassbinder); è amore, ossia dolore, tout courtcroce e delizia dell’umano vivere – non è un caso che nel momento più drammatico della storia risuonino note e parole del duetto Un dì felice, eterea, tratto dalla Traviata verdiana: “Di quell’amor, quell’amor ch’è palpito / Dell’universo, dell’universo intero / Misterioso, misterioso altero / Croce, croce e delizia /Croce e delizia, delizia al cor”.



Unità spaziale (tipica dell’opera huis clos), tempi dilatati e inquadrature (perlopiù) fisse costituiscono l’impalcatura formale del film, che tuttavia si allontana dagli esiti più banali (e banalizzanti) del teatro filmato: il lavoro millimetrico sul sonoro e l’occhio chirurgico, trasversale, di Fassbinder creano, all’interno di quadri ingombri e straordinariamente tensivi, un gioco di rimandi e contraddizioni tra campo e fuori campo, tra figure e sfondo, tra sezioni iconiche e frammenti umani (echi di Goethe), centrali nella costruzione di analogie (soprattutto) e differenze fra i personaggi, e fra questi e gli oggetti. Trucco e parrucco, ma anche certe pose di Petra ne suggeriscono un’adiacenza ontologica con i manichini, mentre Marlene condivide con essi gli spazi dell’appartamento; Karin risulta prima ridotta a un telefono – e a un’attesissima telefonata; siamo dalle parti del rosselliniano Una voce umana – poi, in un campo/controcampo delirante, viene identificata dalla sua amante in una bambola bionda: a delinearsi è un mondo di cose e quasi-cose, in cui la vita appare mummificata e ogni oggetto, quando non si tratta di un feticcio, sembra rivendicare per sé un valore inerente – dove quindi si oscilla fra reificazione e animismo.



Un universo di cose e quasi-cose, dicevamo, che risulta da relazioni – pericolose, oggettivanti, anzi, pericolose perché oggettivanti – le cui qualità fondamentali sono persino riflesse nelle scelte di arredamento e nelle preferenze musicali di Petra: dalla pittura rinascimentale che avvolge la naïveté dei suppellettili alla puntina del giradischi che graffia, senza soluzione di continuità, vinili di musica lirica e di pop statunitense, a emergere è un gusto solo in apparenza eclettico, pretestuosamente eccentrico; è un gusto, piuttosto, indifferente rispetto a ciò che as-saggia, che quindi pone sullo stesso piano (estetico, artistico, assiologico) produzioni diverse, annullandone le differenze. Un gusto per e che produce l’indifferente, che divora il mondo per svuotarlo di senso in una distruttiva coazione a ripetere, e che sostanzia dolorose relazioni bulimiche. Petra è indifferente a Marlene, o meglio la maltratta, mentre l’amore per Karin non è altro, per sua ammissione, che mera brama di possessione: da questo punto di vista, un oggetto amoroso vale l’altro, fino al prossimo rigetto; Karin è indifferente a Petra e a Marlene, un’indifferenza che si traduce prima in sfruttamento e infine in disprezzo; Marlene, caso particolare, è indifferente a se stessa, nella (malriposta) speranza che il proprio martirio non la renda invisibile a Petra (la cui ascendenza sull’assistente è figlia della temporanea cessione di un potere che Marlene può riprendersi in qualunque momento, e che quindi la rende una padrona “in scadenza”: Hegel docet; e difatti…).



Annullare irresponsabilmente l’Altro, non riconoscerne le peculiarità, significa quindi anche annullarsi, poiché il desiderio-bisogno di assimilazione, di inglobamento, proprio in quanto tale è destinato a rinnovarsi all’infinito finché, non trovando mai, all’esterno, completa soddisfazione, si ritorce contro; vuol dire privare tutti gli attori coinvolti nell’atto relazionale di una dimensione, stilizzarli ovvero semplificarli, comprimendoli nelle forme bidimensionali dei modelli e dei bozzetti – come quelli che, per l’appunto, si usano nella moda. “Manichini / Senza volto, senza età / Fili sottili uniti per fatalità / Un destino uguale, una stessa verità”, canta Renato Zero. Petra, per possedere Marlene e Katrin, per consumarle, vorrebbe trasformarle, seppur con modalità diversificate (in lei padrona e serva, secondo convenienza, si scambiano i ruoli; ancora Hegel, qui lettore di Diderot e di Moliére), in marionette, in pedine di una subdola strategia manipolatoria destinata a fallire, un progetto che, come si accorgerà troppo tardi, ha però anche un costo molto elevato – innanzitutto per sé. A ogni ellissi la vediamo infatti sempre più debole, provata, addolorata, prima per la freddezza e poi per l’assenza di Karin; la ritroviamo, infine, giacere esanime e abbandonata a stessa nel suo letto, un’ombra schiacciata da lenzuola troppo pesanti, memori di tempi migliori, sul cui corpo esangue si richiudono, forse definitivamente, le oscurità dell’ultima inquadratura. Cala il sipario, buio in sala, titoli di coda.



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