Rievocazioni, invenzioni e creazione: Il sol dell’avvenire e la nostalgia del futuro
- cinebucolico
- 19 mag 2023
- Tempo di lettura: 6 min
a cura di: Sofia Racco
Jean-Luc Godard nel suo manifesto Que faire?, sul modo di fare cinema, esordiva con due punti essenziali: “Bisogna fare film politici” e “Bisogna fare film politicamente”. Questi due precetti venivano subito messi agli antipodi dal regista francese, come due “antagonisti che appartengono a due concezioni del mondo opposte”: il primo appartenente alla “concezione ideale e metafisica del mondo” e il secondo alla “concezione marxista e dialettica del mondo”, due visioni in continua lotta. Il sol dell’avvenire si pone in mezzo a questi due binari.

Il sol dell’avvenire è l’ultimo film di Nanni Moretti: in concorso al Festival di Cannes insieme ad altri due registi italiani (Alice Rohrwacher con La chimera e Marco Bellocchio con Rapito), è uscito in anteprima nelle sale italiane il 20 aprile. Riscontrando un discreto successo tanto a livello di critica quanto di pubblico, posizionandosi al secondo posto al box office: Moretti ci ha invitato ad andare nelle sale e molte persone hanno accettato l’invito. I primi pareri sembrano favorevoli e parlano di un ritorno del regista romano al morettismo più puro, al cinema pregno di sarcasmo, malinconia e autoreferenzialità che hanno contraddistinto le sue opere di culto. Ma questo ritorno alle origini così marcato non è da semplificare come una cristallizzazione degli schemi morettiani: utilizzando un linguaggio familiare e identificabile nella sua autorialità, riesce a dirci qualcosa di nuovo. Come accade all’interno del film nel film, in cui il regista Giovanni riscrive la storia della risposta del Partito Comunista Italiano all’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, Il sol dell’avvenire compie la stessa azione a livello metacinematografico: riprendendo il passato, in parte, lo riscrive.

Lo spettatore segue le vicende di Giovanni (Nanni Moretti) impegnato nella realizzazione del suo film: ambientato nel 1956, ha come protagonisti Silvio Orlando nei panni di Ennio, segretario della sezione Gramsci del Partito Comunista Italiano e Vera (Barbara Bobul’ovà), una sarta tesserata al partito e compagna di Ennio. Alle riprese del film si alternano scene della vita di Giovanni, come il rapporto deteriorato con la moglie e produttrice dei suoi film, Paola (Margherita Buy) e con la figlia Veronica (Valentina Romani). Ma la vita di Giovanni ritorna sempre a intrecciarsi con la vita sul set, dove le tensioni umane raggiungono il loro picco più alto di espressione. Un film nel film, un film sui film, sulla loro storia, sul come farli e per chi farli.
Il sol dell’avvenire si inserisce all’interno di un contesto generale più ampio, in un periodo in cui il metacinema sembra trovare terreno fertile: negli ultimi due anni in particolare i film che riflettono su loro stessi e sulla loro storia hanno conosciuto una nuova fioritura a livello internazionale, come se si sentisse una necessità condivisa di riflettere sul passato del cinema e sul suo presente, sulla possibilità di recuperare e allo stesso tempo rinnovare i suoi mezzi e sui suoi principi. In particolare questa necessità del cinema di riflettere su sé stesso si è tradotta in delle lettere d’amore e di nostalgia al cinema: film come Babylon di Chazelle (“una lettera d’odio ad Hollywood ma una lettera d’amore al cinema”) o The Fablemans di Spielberg sono gli esempi più significativi. In questo caso con quest’ultimo film (che lo stesso regista romano definisce “un atto d’amore verso il cinema e un atto di fiducia verso il pubblico”) Moretti riesce a cucire un complesso sistema di riferimenti cinematografici che interagiscono su diversi livelli all’interno del film. Dai richiami espliciti, dalla Lola di Demy, la cui visione accompagnata da una vaschetta di gelato è presentata come il rito propiziatorio di Giovanni per il suo nuovo film, a La dolce vita di Fellini che fa capolino sullo schermo come un filo conduttore tra il passato e il presente. Ma la presenza dello stesso Fellini si fa sentire con più intensità per tutta la durata della pellicola, nella vicenda umana e professionale di Giovanni, che suggerisce continuamente un parallelismo con la storia di Guido Anselmi in 8½. Un parallelismo che non si esaurisce nello spazio diegetico: così come Guido Anselmi è una proiezione di Fellini regista, così Giovanni è l’alter ego attraverso cui Moretti esplora le sue ossessioni, le sue paure e le sue speranze. Entrambi i personaggi sono immersi in una profonda crisi creativa e personale e si ritrovano a un punto decisivo della loro vita in cui devono decidere quale strada prendere: quella della disperazione o di una speranza giocosa, quasi scanzonata. Una scanzonatezza che esplode nelle numerose scene accompagnate dalla musica che punteggiano il film (da “Sono solo parole” di Noemi al sempreverde Battiato fino a De André, Tenco e Aretha Franklin) e nel finale, una sfilata sgargiante di volti familiari che, con una virata improvvisa che allontana dalla disperazione e dal pessimismo, riavvolge il filo e ricuce insieme i piani temporali riportando lo sguardo verso l’avvenire.

Ma l’amore per il cinema non è presente solo attraverso colti riferimenti cinematografici a pellicole e registi vari, ma si concretizza soprattutto nel considerarlo non come un monolite in decomposizione, immutabile e intoccabile, ma come materia viva, inquadrandolo in tutti i suoi aspetti materiali, nello scontro tra principi e modi di intenderlo opposti, in tutte le sue difficoltà e criticità. Dal conflitto col giovane regista di un action sci-fi prodotto dalla moglie sul come girare una scena di violenza senza che diventi gratuita alle difficoltà nel far produrre il proprio film,fino ai battibecchi tra Giovanni e l’attrice che interpreta Vera, la qualità essenziale dell’autore Moretti che viene messa in risalto è quella della cura e dell’attenzione per l’opera e per il pubblico a cui si rivolge. In questo senso sono significative le parole di Moretti stesso in merito alla situazione del cinema italiano:
“Il cinema italiano? Sta lì Sapete meglio di me quanto ormai tanti film d’autore, d’essai, che un tempo venivano preparati bene, coccolati, che uscivano al momento giusto, con l’attenzione dovuta, ormai ci sono tantissimi film gettati allo sbaraglio, il pubblico non capisce cosa sta uscendo, non capisce che tipi di film siano. Tanti e tanti film buttati allo sbaraglio e un po’ a casaccio. Questa è una cosa non bella. Il cinema italiano è vivo e questo si sa da tempo. Ci sono tanti registi anche giovani, cioè fino ai 65 anni bravi, poi ci sono Amelio, Bellocchio. È un cinema vivo, di registi e film, però privo di una cura e attenzione attorno. […] Ripeto, i film, i registi, i guizzi, gli sprazzi, ci sono sempre. Ma manca la cura attorno al cinema inteso sia come fenomeno artistico e perché no, anche industriale. Negli ultimi anni c’è un problema: tanti film teoricamente commerciali, praticamente più commerciali non lo sono stati per niente. A proposito di industria cinematografica non lo sono stati per niente”
Ma oltre ad essere un film sul cinema è un film sul tempo che si sviluppa su due piani, spesso intrecciati: personale e cinematografico, individuale e collettivo.
A livello personale e individuale, il più evidente forse, quello di Moretti è un film sulla nostalgia per il tempo che passa e per la gioventù che ci si è lasciati alle spalle: vediamo Giovanni, confuso e ferito per la separazione dalla moglie, sprofondare nei ricordi che si presentano sottoforma di materia onirica, in cui Giovanni, mantenendo il piglio registico, cerca di porre rimedio agli errori passati, di riscrivere la sua storia, dando vita ad alcune delle scene più toccanti del film con lo splendido sfondo di una Roma pregna di romanticismo e malinconia.
L’altro tempo raccontato dal regista romano è quello in relazione all’atto creativo. “Faccio un film ogni 5 anni, non posso continuare così” è la battuta pronunciata da Giovanni più volte nel corso del film. Il tempo ritorna anche nel famoso colloquio con i produttori di Netflix, uno dei cardini della pellicola: in questa scena in cui l’ironia morettiana raggiunge uno dei suoi apici, i produttori lamentano a più riprese dello ‘slow burn’ che non esplode della sceneggiatura, dei colpi di scena che non arrivano al minutaggio giusto, dell’assenza di un momento whatthefuck.Questi scontri tra il regista in crisi de Il sol dell’avvenire e il mondo circostante ci pongono delle domande attuali: com’è cambiato il modo di raccontare una storia? Quanto hanno influito le logiche di produzione e di mercato, il bisogno impellente di velocità e di immediatezza, nel modo in cui creiamo e fruiamo delle storie?
Il sol dell’avvenire non può essere limitato alla categoria di manifesto del morettismo più puro come è stato apostrofato in maniera diffusa (e come d’altronde lo stesso Moretti ci ha sconsigliato di fare, rifiutando di definirlo il suo “testamento”): con il suo ultimo film Moretti sintetizza e rivendica i principi e le caratteristiche che hanno plasmato il suo cinema. Ma quest’operazione non si esaurisce in una semplice summa o in un recupero sterile, ma in unna revisione, un bilancio: gli elementi del cinema di Moretti vengono presentati nella loro riconoscibilità ma attraversati da una nuova luce, da uno sguardo che guarda indietro per prepararsi al futuro, recupera per rinnovare.
All’interno del film si rinnova la storia, si rovescia esplicitamente il proverbiale detto “la storia non si fa con i se” e si prendono proprio quei “se” contro cui siamo stati messi in guardia e si costruisce un finale.
“Non è un film sulla politica, è un film sull’amore” dice l’attrice che interpreta Vera nel film di Giovanni, suscitando una reazione sgomenta in quest’ultimo. Si può dire che è un’affermazione parzialmente accurata per quanto riguarda Il sol dell’avvenire: è un film sulla politica, sull’amore e sull’amore per il cinema.
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