Ritratto e citazione par Agnès V. - La pittura come mezzo di conoscenza di sé
- cinebucolico
- 30 set 2022
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 3 dic 2022
A cura di: Bianca C.

Agnès Varda ama le immagini. A partire dalla sua formazione parigina come studentessa di storia dell’arte, proseguendo con la carriera di giovane fotografa, l’individuazione del cinema quale medium privilegiato, fino ad arrivare all’ultima plage della videoarte, la sua vita – non solo – artistica lo dimostra. Varda ama le immagini e gioca con le immagini, intessendo trame di continui rimandi, labirinti di riferimenti, mosaici di citazioni.
In Jane B. par Agnès V. il citazionismo pittorico è intensificato e portato all’esasperazione. La figura di Jane Birkin – diva, madre, cantante, amante, attrice, modella, figlia, donna – viene a comporsi tramite travestimenti, personificazioni, atmosfere, siparietti, tutti tasselli del grande ‘mosaico Jane B.’. Jane incarna la Maya di Goya, una Musa romantica, la classica Arianna, una Madonna annunciata, Giovanna D’Arco: nel tentativo di definire, ma al contempo di ‘lasciare aperta’ la sua femminilità, Agnès ne evidenzia ora un aspetto, ora un altro, attraverso queste figure pittoriche.
Il tema del dipinto è come il fil-rouge di Arianna-Jane che ci guida attraverso il labirinto del film, all’interno però dell’arte di Varda; infatti, Jane B. par Agnès V. si apre con la rappresentazione della Venere di Urbino di Tiziano, e con la stessa immagine si chiude. In entrambi i casi Jane interpreta ‘l’ancella del baule’ sullo sfondo; soltanto una volta la ritroviamo in primo piano, ma ad incarnare le due versioni della Maya. Jane non è mai Venere, all’interno di una sfaccettata divagazione sulla bellezza, dove la perfezione sembra stare stretta, perché ‘irritante’.

“È un’immagine molto calma, fuori dal tempo, immobile. Si ha l’impressione di sentire il tempo che passa, goccia a goccia: ogni minuto, ogni secondo, le settimane, gli anni.” Il film è costellato da più o meno espliciti tableaux vivants, che, prendendo vita, innescano infinite riflessioni sullo statuto della rappresentazione, il rapporto tra primo piano e sfondo, il concetto di superficie schermica e pittorica. La cornice delimita lo spazio dell’immagine, all’interno del quale ogni sperimentazione è lecita e il fascino per la mise en abyme è libero di dispiegarsi.
La pittura è un mezzo per conoscere l’altro e il mondo attorno a sé, strumento di analisi della realtà, del sogno, della fantasia, della rêverie, ma soprattutto modalità per indagare la propria stessa essenza. La (s)definizione di Jane non è univoca, perché in questo processo entra letteralmente anche Agnès stessa, che si autorappresenta accanto alla macchina da presa e a Jane nel quadro-specchio iniziale.

Il cinema di Varda può essere considerato come estremamente autobiografico – o meglio autoritrattistico – ma ogni volta la rappresentazione del sé si delinea a partire dalla rappresentazione dell’altro. Tramite la particolare sensibilità delle sue immagini e delle sue parole, gli altri (e quindi lei) prendono forma e vanno ad incastonarsi nello sfaccettato universo-Varda.
Nell’incipit de Les plages d’Agnès dispiega questa operazione concretamente, con la volontà di ritrarre tutti i suoi collaboratori attraverso gli specchi incastonati nella sabbia, arrivando quindi a sé stessa, ed esaudendo la sua idea di autoritratto “specchiata e con il foulard sul viso” (anticipando la successiva citazione diretta de Gli amanti di Magritte).

In Les glaneurs et la glaneuse, invece, una delle operazioni di autorappresentazione ha origine dall’autoritratto rembrandtiano acquistato in Giappone; a partire da esso la petite caméra si sposta sulla mano della regista che, filmando una mano con l’altra, indugia sulla pelle e i suoi misteri, fino a riscoprirsi un “animale che non conosco”. L’autoritratto è una costante anche nel lavoro fotografico: sia giovane che anziana, mosaico di sé stessa.

Anche il frammento è una costante, ma è sempre un elemento che trova istantaneamente il suo posto. La citazione non riguarda soltanto la pittura, ma è un’operazione frequente e quasi automatica: Varda cita sé stessa, i suoi precedenti lavori, i suoi stessi film, episodi già visti, in un continuo approccio memoriale, da wunderkammer, dove a ogni tassello appartiene un ricordo, e nel quale riesce senza alcuna difficoltà a coinvolgere lo spettatore, che diventa testimone della rimembranza e parte del mosaico stesso.
コメント