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The Florida Project - tra sogno e realtà.

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 9 dic 2022
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 16 dic 2022

A cura di: Carmen.


"The Florida Project" è il soprannome con cui viene identificato “Experimental Prototype Community of Tomorrow", un progetto fortemente voluto da Walt Disney nella seconda metà degli anni Sessanta, che prevedeva la costruzione di un amplesso di parchi a tema, residence e alberghi, all'interno delle quali funzioni ludiche ed esigenze abitative potessero coesistere e integrarsi efficacemente. Il progetto non andò a buon fine e tutto ciò che ne è rimasto adesso sono diversi negozi discount, motel fiabeschi e degrado. Sean Baker ambienta la sua storia ai margini di Disney World, nei pressi di una periferia fatta di tangenziali, centri commerciali, negozi di souvenir e motel popolari dai colori pastello e nomi che riprendono i temi delle favole, come il “Magic Castle”, abitati da persone che non possono permettersi di entrare nelle meraviglie turistiche a pochi chilometri di distanza.


La storia prende forma attraverso il punto di vista dei bambini: saranno proprio quest’ultimi ad accompagnare lo spettatore per tutta la durata della pellicola, mostrandoci sprazzi di vita quotidiana dell’infanzia di Moonee (Brooklynn Prince), una bambina di sei anni dal carattere vivace che vive insieme alla giovane e irresponsabile madre Halley (Bria Vinaite) in una stanza del Magic Castle, passando le sue giornate in piena spensieratezza in compagnia dell’amico Scooty (Christopher Rivera) e l’amica Jancey (Valeria Cotto); a tenerli sotto controllo l'amministratore dello stabile, Bobby (Willem Dafoe).

La scelta del regista di usare il punto di vista dei bambini non è inusuale: gli occhi innocenti dei tre bambini ci permettono, infatti, di assimilare la forte e violenta veracità del contesto degradante in cui vivono. Questo è reso possibile non solo grazie all'angolazione di ripresa dal basso, che limita la visuale dello spettatore, ma anche grazie alla presentazione di una realtà fiabesca, dataci dal forte spirito creativo di Moonee, Jancey e Scooty, capaci di rendere ogni loro avventura una sorta di attrazione da parco a tema. Moonee è ignara della condizione di disagio in cui si trova e spesso la ritroviamo in situazioni tragiche e pericolose ma, nonostante ciò, è sempre sorridente come se vivesse una vita da sogno nel motel in cui si trova. Baker ci mostra una ‘favola’ dai connotati tipici del neorealismo, con un’America marginale e marginalizzata: i bambini presentati dal regista dicono parolacce, sputano sulle auto e sugli altri bambini, chiedono soldi ai passanti per strada per comprare gelati, sabotano l’impianto elettrico del Motel e riescono anche a dare fuoco a un intero complesso di case abbandonate.


Sono in grado sia di far ridere attraverso una spudorata maleducazione, sia di far sospendere ogni giudizio morale sulla propria condotta. Perché nella loro spassosissima irrequietezza e irriverenza Moonee, Scooty e Jancey restano dei bambini e conservano quei tratti di innocenza propri della loro età. La spensieratezza di Moonee e dei suoi amici si scontra con la sconsideratezza della madre Halley, incapace da parte sua di gestire la propria situazione economica e di trovare quella stabilità necessaria per lei e sua figlia. È che qui che “ The Florida Project” assume tinte meno dissacranti e più drammatiche, evitando però di cadere nella denuncia sociale. Magic Castle è un microcosmo sociale, quasi un’America dentro un’America ed è Bobby il pezzo che tiene in equilibrio favola e dramma, sogno e realtà, gioco e oneri. Bobby è l’unico personaggio che si ritiene responsabile per gli altri, non esente lui stesso da problemi personali e gerarchie a cui deve rispondere, ma allo stesso tempo è capace di vestire i panni di un gestore “buono”, diviso fra regole che obbliga a far rispettare ed empatia per le difficoltà umane a cui è costretto ad assistere ogni giorno.


Ad accentuare la parabola che dalla favola ci riporta alla realtà – e al suo inferno sociale – arriva quel finale dissonante, per formato e narrazione. Se da una parte a chiudere un film girato in 35mm è l’unico spezzone girato in digitale (con un iPhone che riprende, senza permessi, Disney World) dall'altra è la sua incongruenza narrativa a rivelare il commovente intento di Baker di salvare quella stessa infanzia colpita e tradita, di proteggerla, di farle vivere quel sogno mai realizzato. Uno slancio disarmonico, quasi onirico, che arriva bruscamente, come se il regista volesse ridisegnare un lieto fine da favola per bambini ma senza crederci o (farcelo credere) troppo. Un omaggio disperato a quella stessa disperazione, quella di un’America ai margini che, fiabesca, non lo sarà mai.



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