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The Whale o Moby Dick

  • Immagine del redattore: cinebucolico
    cinebucolico
  • 1 mar 2023
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 13 mar 2023

a cura di: Marco Speroni


The Whale (di D. Aronofsky, 2022) è teatro che si presta al cinema. È uno scenario angosciante e soffocante, ma acutamente intimo. La regia claustrofobica è scandita dalle esalazioni del respiro ansimante del protagonista, come lancette taglienti che rilevano il passare inesorabile del tempo. Nell’atmosfera rarefatta e degradante gli istanti sembrano essersi fermati. Anche le parti del corpo di Charlie (Brendan Fraser) sono bloccate, inglobate dal divano. Lui, abbandonato tra i cuscini sudici, sprofonda inesorabilmente. Il cibo è la sua droga, la letteratura la sua unica consolazione. Insegna, o meglio, monologa davanti ad uno schermo piatto, dove la sua immagine è oscurata, buia, nera. Metafora della sua immagine nel mondo reale. Non esiste più al di fuori delle quattro mura di casa sua che lo circondano e lo stringono in una cintura esistenziale. Il suo salotto è un palcoscenico dal quale recita le sue verità. Gli studenti ascoltano la sua voce in religioso silenzio. Gli altri personaggi entrano, interagiscono ed escono, come attori in una scena teatrale. Lui rimane sempre lì, in un’attesa beckettiana. Non vive, non sopravvive, esiste e basta. È un albero secolare, radicato e soffocato dalle sue ragnatele intellettuali. Il suo sguardo è perso, altrove, ma sembra scrutare qualcosa, forse cerca l’orizzonte, il mare descritto da Melville in Moby Dick. L’assolutezza dell’oceano è mostruosa, quanto affascinante. E’ il Sublime romantico ottocentesco, l’ultima possibilità di redenzione umana.

Quando parla, Charlie è sicuro e saggio, quando si muove è ingombrante e pietoso. La sua enorme stazza diventa sottile nel momento in cui apre la bocca, dalla quale gocciolano, tra le salse e cibo masticato, parole di un’umanità docile e disarmante. Sprona i suoi allievi a scrivere qualcosa di vero, autentico, sincero, ma nascondendosi. Sembra paradossale, ma è la sua natura. Solo rintanandosi in una stanza può esprimere sé stesso, lontano dalla malvagità del mondo.

Aronofsky è accuratissimo nella scelta dei suoi personaggi, ma risulta ancora più efficace quando costruisce il film sopra ad un unico protagonista come è riuscito a fare egregiamente in The Wrestler (2008) e Il Cigno nero (2010). In questi film e in The Whale vi è la stessa capacità di seguire la vita dei protagonisti come in un documentario. Ci fa lottare, danzare, ingozzare ed infine soffrire con loro. Lo spettatore è portato ad essere un angelo custode che freme per aiutare questi personaggi, ma la regia è così ermeticamente chiusa che costringe solamente ad osservare la loro caduta precipitosa. Siamo limitati a compatire, non possiamo agire. La quarta parete è solida, inaccessibile. Siamo inermi, mentre Charlie sprofonda nell’abisso come Moby Dick. Urla nei fondali profondi, ma nessuno può sentirlo. Riesce faticosamente ad alzarsi dal divano come l’enorme balena bianca che riaffiora dall’acqua, proprio quando sua figlia legge il saggio su Moby Dick, ma sarà fatale. Nel suo romanzo Melville descrive il dilemma dell’ignoto, la paura, il terrore, le tenebre dell’animo umano, ma anche il senso di speranza, la possibilità di riscatto. Charlie intravede questa luce e l’accoglie perché vuole “fare almeno una cosa giusta nella vita” prima di andarsene.

The Whale è quindi teatro e letteratura, ma è soprattutto Brendan Fraser. Aronofsky riesce, per la seconda volta, nell’impresa di recuperare un corpo ormai malandato, un’icona del cinema trascurata da Hollywood, valorizzandone proprio il decadimento fisico e psicologico. Ci era riuscito con Mickey Rourke in The Wrestler e ci è riuscito nuovamente con Fraser, il quale ci regala un’interpretazione profondamente toccante e probabilmente la performance della sua vita.


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